IL TEATRO GRECO: RITO COLLETTIVO ED INSTRUMENTUM REGNI

Il teatro greco: un rito collettivo per lo Stato e dello Stato

Il teatro, nell´Atene del V secolo a.C., assumeva un valore sacrale ed un´importanza notevole, sia sul piano culturale che su quello politico e sociale. I generi teatrali rappresentati erano la tragedia, la commedia e il dramma satiresco.

Quest´ultimo era così definito perché il coro era formato da attori travestiti da satiri, cioè da divinità legate al culto dionisiaco, di aspetto per metà umano e per metà caprino. Le rappresentazioni avvenivano durante le festività delle Lenee (nel periodo di gennaio – febbraio), delle “Grandi Dionisie”, o “Dionisie urbane” (nel periodo di marzo – aprile), e delle “Piccole Dionisie”, o “Dionisie Rurali” (nel mese di dicembre). Notevole era la platea di spettatori: Platone, nel “Simposio”, attesta che nell´anno 416 a.C. più di 30.000 spettatori assistettero alle rappresentazioni andate in scena durante le Grandi Dionisie. La tragedia era caratterizzata da un finale luttuoso e ruotava attorno alle vicende di sovrani che, all´apice della loro gloria, sprofondavano, per la loro arroganza e per le loro colpe, nel baratro della rovina. La materia era tratta generalmente dal mito, eccezion fatta per i “Persiani” di Eschilo, incentrata sulla seconda guerra persiana, che costituisce l´unico dramma di argomento storico che conosciamo e la più antica opera teatrale a noi pervenuta.

La commedia si concludeva con un lieto fine e mirava a suscitare il riso e l´ilarità degli spettatori. I maggiori autori di tragedie e di drammi satireschi furono Eschilo, Sofocle ed Euripide. I più celebri scrittori di commedie furono Aristofane e Menandro.

Contrariamente alla tragedia greca, che cominciò a tramontare già nel V secolo a.C., dopo la morte di Euripide, la commedia preservò la sua vitalità fino alla metà del III secolo a.C.. I commediografi, infatti, seppero adeguarsi ai mutamenti politici e culturali ed alle tipologie del pubblico di riferimento. L´evoluzione del genere comico si articolò in tre fasi: 1) – La Commedia Antica, Ἀρχαία  (Archàia) che abbracciò in particolare il V ed il IV secolo a.C.; 2) – La Commedia di mezzo, ο Μέση (Mèse) che si protrasse fino al 323 a.C.; 3) – La Commedia Nuova, ο Νέα (Nea), che percorse l´intera età ellenistica. Nella fase dell´Archàia, Aristofane metteva sulla scena eventi e personaggi legati alla realtà sociale e politica del suo tempo. I contenuti delle commedie erano generalmente politici e fondati sulla satira e sull´attacco personale contro le autorità e le persone più in vista, secondo il principio della parresìa (cioè della piena libertà di parola) e dell’onomastí komodéin (cioè dell´attacco nominale).

La Commedia Antica si sviluppò nel periodo di maggiore splendore della democrazia ateniese, in cui i cittadini erano pienamente coinvolti nelle scelte politiche della loro città. In seguito, però, la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso, l´imporsi del breve regime dei Trenta Tiranni e, infine, l´instaurazione di una nuova democrazia (che fu tale solo di nome, non più di fatto), allontanarono sempre di più gli Ateniesi dalla politica. Pertanto, anche la Commedia cominciò a diversificarsi e, nella Mèse, i cui maggiori rappresentanti furono Antifane, Anassandride ed Alessi, ci si orientò verso contenuti più “disimpegnati”, attinti dal mito.

La trasformazione si completò nell´età ellenistica, una fase in cui i centri del potere non erano più le assemblee, ma i palazzi dei sovrani. Venne meno quella stessa ragion d´essere del πολίτης  (polìtes) che aveva caratterizzato in modo originale la polis greca, e quella steniese in particolare, rispetto alle città-stato mesopotamiche ed orientali. I commediografi si trovarono di fronte ad un nuovo pubblico di riferimento, composto non più da cittadini, ma da sudditi. Nella fase della Commedia Nuova, il cui maggior rappresentante fu Menandro, i contenuti si adeguarono alla nuova realtà e le vicende rappresentate riguardarono esclusivamente la sfera individuale e sentimentale degli uomini. Gli sviluppi della Commedia furono tali soprattutto perché il teatro greco agì sempre da vera e propria cassa di risonanza della vita politica, sociale e culturale del tempo. Ciò si verificò non solo per la commedia, ma anche per la tragedia. Se è vero, infatti, che questo genere teatrale si ispirava fondamentalmente al mito, è, d´altra parte, innegabile che le vicende rappresentate costituivano una vera e propria metafora dei problemi e della situazione dell´Atene del V secolo. Gli atti e le empietà dei protagonisti delle tragedie erano identificabili con i comportamenti più turpi ed abietti di cui qualunque uomo, in ogni epoca ed in ogni circostanza, quindi anche nell’Atene del V secolo, avrebbe potuto macchiarsi. Per questo motivo, il pubblico si immedesimava nelle vicende dei personaggi e, attraverso la visione del dolore e delle sciagure dei protagonisti, capiva l´importanza di evitare determinate azioni. Ne scaturiva un processo educativo che Aristotele definiva “catarsi”, o “purificazione”, che si realizzava attraverso il principio del πάθει μάθος (pàthei màthos), cioé (“apprendimento attraverso il dolore”).

Le sofferenze e le pene patite dai protagonisti delle tragedie convincevano, inoltre, i cittadini dell´esistenza di un ordine divino superiore, compiuto e immutabile, a garanzia del quale vi erano le leggi dello Stato e le autorità costituite. Destabilizzare lo status quo significava, dunque, sovvertire quello stesso ordine superiore e, quindi, incorrere nella tremenda punizione divina. Sotto questo aspetto, è facile notare come il teatro greco avesse non soltanto una valenza culturale ed educativa, ma, soprattutto, una funzione politica normalizzatrice e di controllo che lo caratterizzava anche come “instrumentum regni”.

L’amore unificante ed universale di Cristo

Riflessioni sulla liturgia di oggi, 2 maggio 2024

Oggi la Chiesa celebra la memoria di Sant’Atanasio, vescovo e dottore della Chiesa, convinto e tenace difensore della fede autentica in un periodo in cui essa era messa a dura prova dall’eresia ariana che, negando la natura divina di Cristo e, quindi, l’uguaglianza e la consustanzialità del Padre e del Figlio, metteva in discussione lo stesso disegno salvifico del Padre per le redenzione dell’umanità attraverso il Figlio.

Le questioni poste in essere da Ario furono affrontate, in particolare, nel Concilio di Nicea del 325 da cui scaturì il “Credo” niceno.

Di “concilio” si può, tuttavia, parlare già con il passo odierno degli Atti (15, 7-21): è il Concilio di Gerusalemme, tenutosi intorno al 49, sul tema che si ricollega al v. 5 dello stesso capitolo, in cui alcuni farisei convertitisi alla religione cristiana affermano che la salvezza è subordinata alla circoncisione.

Paolo e Barnaba, che da Antiochia sono venuti a Gerusalemme proprio per discutere su tale questione, affermano, in linea con la visione di Pietro, che la salvezza e il perdono dei peccati sono il frutto dall’opera di Dio mediante la fede degli uomini e la grazia del Signore Gesù Cristo.

Il Concilio, a cui partecipano Paolo, Barnaba, Pietro e Giacomo, approda alla conclusione che la vera “circoncisione” richiesta da Dio è la “circoncisione dei cuori”. L’uomo è puro per la fede e per la sua capacità di testimoniare il Vangelo.

Pietro, in particolare, afferma: “Dio, che conosce i cuori, ha dato testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede. Ora dunque, perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare? Noi invece crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro” (Atti 15, 8-11).

Tale purezza , però, deve essere rafforzata, secondo la visione dell’apostolo Giacomo, con il rispetto di alcuni divieti, già presenti nella legge Mosaica, tra cui quello di astenersi dal culto degli idoli, dalle religioni false, dalle unioni illegittime e dal mangiare cibi impuri, come la carne di animali che avevano ancora il sangue al loro interno. Il sangue, infatti, è il simbolo della vita e, come prescritto già dalla legge mosaica, deve essere offerto al Signore.

Giacomo media tra la posizione di Pietro e quella dei farisei convertiti. Questi ultimi, sconfitti in merito al principio della circoncisione, segnano, in qualche modo, un punto a loro favore con l’imposizione l’obbligo di osservare altri importanti divieti già presenti nella Legge di Mosè.

Così, se da un lato, non si impongono ai pagani convertiti regole “irricevibili” (la circoncisione era considerata dai pagani, già in età classica, un’usanza inammissibile), dall’altro si prescrivono loro alcune regole fondamentali che devono essere rispettate da ogni fedele cristiano.



Una novità straordinaria, quella della salvezza universale donata da Cristo a tutti i popoli, che affonda le sue radici nel passo del Salmo di oggi (95, 1-3, 10):

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore da tutta la terra.

Cantate al Signore, benedite il suo nome,
annunziate di giorno in giorno la sua salvezza.

In mezzo ai popoli raccontate la sua gloria,
a tutte le nazioni dite le sue meraviglie.

Dite tra i popoli: «Il Signore regna!».
Sorregge il mondo, perché non vacilli;
giudica le nazioni con rettitudine.

Il canto nuovo è la novità del Vangelo, il cui messaggio è universale e, dunque, può e deve essere “cantato” da tutti i popoli della terra.

La decisione assunta dal Concilio di Gerusalemme è perfettamente in linea con quanto predicato nel passo del vangelo di oggi (Gv 15, 9-11), in cui l’evangelista ci invita ad osservare i comandamenti per rimanere sempre radicati nell’amore di Cristo. Solo così potremo contribuire a far nascere una vita e un’umanità nuove.

L’amore che Gesù ci chiede, tuttavia, è totalizzante ed anche esigente, come leggiamo nei versetti immediatamente successivi a quelli che ci vengono proposti oggi dal Lezionario. Cristo ci esorta ad amarci reciprocamente, come lui ha amato noi, e a offrire la nostra vita per gli amici, mettendo a disposizione il nostro tempo per aiutare chi si affida a noi.
Ecco le parole di Gesù che ritroviamo Gv 15, 12-15 ” Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”.

Riflettiamo, dunque, su quanto oggi ha da dirci la Parola di Dio e preghiamo lo Spirito Santo affinché ci aiuti a rimanere sempre nell’amore di Cristo, rispettando concretamente il suo più nuovo e più grande comandamento.

Possiamo senz’altro vedere nella parole di Giacomo l’azione sapiente, equilibrata e, proprio per questo, unificante dello Spirito Santo. Quello del Concilio di Gerusalemme può, dunque, costituire, proprio grazie all’azione di Giacomo, uno straordinario esempio di apertura verso al mondo o, come diremmo noi oggi, di dialogo ecumenico.

A Gerusalemme si afferma in maniera irreversibile e definitiva il modello della Chiesa universale che aveva mosso i suoi primi passi ad Antiochia, in Siria, dove, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani (Atti 11, 19-26).

Ubi pax, ibi Deus (dove c’è pace, lì c’è Dio). Sicuri e fiduciosi nella pace del Signore! Riflessioni sulla liturgia di oggi, 30 aprile 2024.

La foto è tratta dal sito https://www.lucarubin.it/vi-lascio-in-pace/ e la frase in latino è posta all’ingresso dell’eremo delle carceri ad Assisi.

Il passo odierno del vangelo, tratto da Giovanni, 14, 27-31, ci parla della pace di Cristo. Essa è radicalmente diversa da quella degli uomini. La pace che Gesù ci dona non è semplicemente assenza di guerra, non è legata alle circostanze e, soprattutto, non scade. Cristo è fedele sempre, siamo noi a tradirlo e, talvolta, ad abbandonarlo. La vera fede consiste nel legarsi indissolubilmente alla Parola e alla persona di Gesù. Così, quando ci troveremo in balia delle tempeste, se avremo fiducia in Lui, sapremo affrontare e superare ogni pericolo. Con Gesù non possiamo e non dobbiamo avere paura.

Il nostro quotidiano atto di fede in Lui implica, di contro, una vera e propria disobbedienza alla paura, perché la pace di Cristo è presente nei nostri cuori quando, pur fra tanti problemi e fra tante angosce, sappiamo di non essere mai soli! D’altronde, “se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” (Romani 8, 31-39).

Aggrappiamoci a Gesù: grazie a lui si realizza quell’umanità nuova e riconciliata con Dio a cui possiamo e dobbiamo aspirare! Gesù è la vera pace di cui il mondo, soprattutto oggi, ha così tanto bisogno. Possiamo ottenere questo dono straordinario se ci lasceremo guidare dal Signore per mezzo dello Spirito Santo e se sapremo cambiare radicalmente la nostra vita. Solo così, infatti, potremo “andare con gioia incontro al Signore” che ci dice: “Alzatevi, andiamo via di qui”.

Accogliamo, dunque, l’invito di Gesù e cerchiamo con fiducia la vera pace in Lui. Non stanchiamoci mai di lodare il Signore, come ci chiede il Salmo 144, e di chiedergli sempre “donaci la tua pace, o Signore!”. In Lui troveremo la vera pace, perché “Ubi Deus, ibi pax (Dove c’è Dio, lì c’è la pace)!